20/05/2018
SM 4009 -- L'ILVA non è un salotto
Ecologiapolitica, 28, (3-4), marzo-aprile 2018
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Il
caso ILVA riassume in se tutti gli aspetti e le contraddizioni della società
industriale moderna basata sulla produzione e sul commercio di cose, di beni
materiali. L’acciaio è una di queste merci utili, anzi indispensabili. Se
l’acciaio improvvisamente sparisse scomparirebbero le automobili, i
frigoriferi, le lavatrici, le case crollerebbero per il venir meno
dell’armatura del cemento, non ci sarebbero ponti per attraversare i fiumi, si
fermerebbe la stessa agricoltura.
Purtroppo
il processo per la produzione dell’acciaio a ciclo integrale, quello di
Taranto, è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro
la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.
Tutto
comincia con le grandi navi che trasportano, attraverso gli oceani, il carbone
e il minerale di ferro; queste materie prime pulverulente sono scaricate,
mediante nastri trasportatori, nei rispettivi “parchi” a cielo aperto, esposti
al vento. Nelle cokerie il carbone viene trasformato, per riscaldamento ad alta
temperatura, in coke, la forma adatta per il trattamento dei minerali di ferro,
con formazione di sottoprodotti gassosi, liquidi e solidi, nocivi e in parte
cancerogeni; sottoprodotti in parte riutilizzati nella stessa acciaieria, in
parte recuperati, in parte dispersi nell’aria dentro e fuori la fabbrica. Il
minerale, costituito da ossidi di ferro, viene miscelato con coke e scaldato nell’impianto
di agglomerazione in modo da essere meglio trasformato nell’altoforno.
L’altoforno, un lungo tubo verticale, viene caricato di agglomerato, di calcare
estratto dalle cave vicino lo stabilimento; il coke ad alta temperatura porta
via l’ossigeno dal minerale di ferro e si forma un ferro greggio, la ghisa,
insieme a scorie e a una corrente di gas ricchi di sostanze nocive, polveri,
eccetera, anche questi in parte filtrati, in parte dispersi nell’aria.
La
ghisa viene trasportata mediante speciali carri, allo stato fuso, ai
convertitori in cui l’ossigeno la trasforma, insieme a rottame, nell’acciaio
vero e proprio; anche qui con formazioni di gas e polveri e scorie. L’acciaio
fuso viene poi trasformato in pezzi di varie dimensioni che a loro volta
verranno trattati nei laminatori a caldo e nei laminatoi a freddo, fornendo
lamiere, fili, tubi.
Questa
è un’acciaieria, non è un salotto; fuoco, e fumi e polveri che oscurano il bel
cielo di Puglia e sporcano i polmoni e le terrazze delle case. Lavorare
nell’acciaieria è faticoso e pericoloso eppure è stato il sogno di varie
generazioni pugliesi: all’Italsider si è formata una classe operaia, il salario
ha consentito a molte migliaia di persone di mandare i figli all’Università, di
comprare l’automobile e la casa. Il maggiore benessere è stato pagato da un
crescente inquinamento, dalla comparsa di malattie, alcune mortali.
Da
alcuni anni la protesta contro l’inquinamento si è fatta così forte da
innescare infinite discussioni sul futuro dello stabilimento e dell’occupazione
da cui dipende la vita di diecine di migliaia di persone. Il lavoro serve e
viene pagato per produrre merci e servizi e, nel caso di Taranto, per produrre
acciaio da vendere a qualcuno --- e inquinamento.
Nel
1960, quando è stato pensato il “quarto” centro siderurgico italiano a Taranto,
la produzione di acciaio era stata prevista di circa 6 milioni di tonnellate
all’anno, la produzione mondiale era di 350 milioni di t/anno e la richiesta
era elevata. Oggi la produzione presunta di Taranto, 8 milioni di t/anno, si deve
confrontare con una produzione mondiale di acciaio di 1700 milioni di t/anno, il
che significa che il “grande” stabilimento di Taranto è quasi irrilevante nel
mercato mondiale dell’acciaio.
Questo
va tenuto presente quando si cercano dei soldi per tenere in vita la produzione
di Taranto. Chi investe soldi, sia lo stato o un privato, deve recuperare
questi soldi vendendo acciaio. Dopo tante discussioni sembra che un adeguato
investimento sia stato trovato nella società ArcelorMittal che già produce
circa 100 milioni di t/anno di acciaio nel mondo.
A
mio parere per Taranto ci son tre strade possibili. La prima è spendere soldi a
fondo perduto per sistemare un poco le parti più inquinanti --- parchi minerali
e carbone, altoforni più vecchi, agglomerazione, cokerie --- e riprendere la produzione
con un po’ meno di inquinamento ma con inevitabile diminuzione del personale richiesta
dai compratori anche per alleggerire il costo dei salari sul ricavato dalla vendita
dell’acciaio.
La
seconda soluzione è un cambiamento radicale del ciclo produttivo e qui si sono
sbizzarrite le fantasie. Una proposta è abbandonare l’uso del carbone e usare
il gas naturale per la riduzione diretta del minerale e successiva trasformazione
del preridotto in acciaio col forno elettrico. Il che significherebbe la totale
costosa ristrutturazione dello stabilimento, l’eliminazione dei parchi di
minerali e carbone, degli altoforni, della cokeria, e dell’agglomerazione, cioè
dei settori oggi più inquinanti, anche se con inquinamenti di altro tipo. Un qualche
miglioramento dell’ambiente ma l’interruzione della produzione per anni e perdita
di occupazione. Una alternativa nella stessa direzione e con gli stessi effetti
potrebbe essere quella di importare minerale preridotto da trasformare in
acciaio nei forni elettrici.
La
terza alternativa sarebbe, come chiedono alcuni, la chiusura e lo smantellamento
e bonifica dello stabilimento, col che migliorerebbe la situazione ambientale,
ci sarebbe una qualche occupazione per le operazioni di smantellamento e
bonifica, un forte investimento a fondo perduto da parte di qualcuno nel nome
della salute e della vita dei cittadini e dei disoccupati.
Quando
si parla di occupazione non va dimenticato che esiste anche quella delle
attività portuali e di trasporto delle materie prime che sarebbe influenzata da
qualsiasi alternativa all’esistente.
La
scelta per il futuro dipende da soggetti con interessi contrastanti. La
popolazione e gli amministratori locali che vogliono aria pulita ma
occupazione; gli imprenditori che vogliono produrre acciaio da vendere spendendo
il meno possibile; lo stato che vorrebbe cittadini contenti per il miglioramento
ambientale, investitori che ci mettano dei soldi e vorrebbe spendere il meno
possibile in sussidi a fondo perduto. Purtroppo tutto non si può avere.
Non
si tratta di discorsi su cose astratte ma di merci, di movimentazione e
trasporto di circa 50 milioni di tonnellate all’anno di materie prime e materiali,
di produrre e vendere dieci milioni di tonnellate all’anno di lamiere, di
rotaie, di tubi e tondini e fili d’acciaio in un mercato mondiale che sarà sempre
più sovraffollato di acciaio.
Un
compito non facile per il futuro governo che renderà un servizio al paese se,
messi da parte bizze e sogni, si renderà conto che il mondo va avanti con
minerali, acciaio, alluminio, petrolio, benzina, gasolio, elettricità, rame, cemento,
eccetera, tutte cose utili, ma purtroppo inquinanti anche se indispensabili per
fabbricare case e automobili, produrre frumento e patate, allevare bestiame da
carne, ottenere tessuti e scarpe e giornali, eccetera.
Dopo
la prima grande crisi petrolifera del 1973 l’Economist pubblicò un articolo intitolato:
“Commodity power”; tutto il potere alle merci. Vadano a leggerselo i futuri
ministri.
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