01/01/2016
SM 3839 -- G.Pollice e G.Nebbia, Il tradimento di Parigi -- 2015
Verde Ambiente, 31, (4/6), p. 2 (luglio-dicembre
2015)
Giorgio Nebbia e
Guido Pollice
Presidenti,
ministri, funzionari, imprenditori, compagnie di assicurazioni, lobbysti, sono
corsi in forze a Parigi, nel dicembre 2015, alla favolosa riunione del COP 21,
che sarebbe come dire la ventunesima riunione della Conferenza delle parti
interessate alla limitazione dei mutamenti climatici. Tali mutamenti, come è
ben noto, dipendono dalla modificazione della composizione chimica
dell’atmosfera conseguente l’immissione nella stessa atmosfera di vari gas; li
chiamano gas serra perché contribuiscono a trattenere all’interno dell’atmosfera
e quindi dell’intero pianeta, una crescente quantità di radiazione solare; il
conseguente riscaldamento provoca tempeste improvvise, avanzata dei deserti,
modificazione della temperatura e salinità dei mari, fusione di ghiacci,
eccetera.
Si
parla di oltre 40 miliardi di tonnellate all’anno di anidride carbonica,
metano, ossidi di azoto, per la maggior parte derivanti dall’uso diretto e
indiretto delle fonti di energia fossili: carbone, petrolio, gas naturale. Una
parte dei gas serra viene eliminata dall’atmosfera trascinata dalle piogge nei
mari; una parte contribuisce alla fotosintesi; una parte, circa 20 miliardi di
tonnellate all’anno, va ad aggiungersi ai circa 3000 miliardi di t di gas serra
che già sono presenti nell’atmosfera. Tenendo conto del peso specifico dei vari
gas, il volume dei gas serra aumenta di circa due unità ogni milione di volumi
di gas totali (ppm).
L’energia
“serve” per produrre merci (cemento o acciaio, grano o plastica, navi o
telefoni mobili, eccetera) o servizi (mobilità o sanità, o istruzione; c’è
energia anche “dentro” i libri o i banchi di scuola, eccetera). Per rallentare
i cambiamenti climatici bisogna diminuire l’aggiunta annua di gas serra
all’atmosfera; a meno di una catastrofe planetaria non è possibile diminuire
quelli che già ci sono; si può solo aggiungerne di meno ogni anno e per fare questo bisogna usare meno
energia fossile ogni anno. Molti governanti cominciano ad essere spaventati dal
fatto che i cambiamenti climatici comportano dei costi, necessari per risarcire
i proprietari della case allagate, dei campi alluvionati, delle strade franate,
e fanno arrabbiare gli elettori, e da anni si incontrano, senza successo, per
arzigogolare qualche strumento fiscale o monetario o per incentivare qualche
forma di energia che emetta meno gas serra: solare, eolico, o anche (chi si
vede ?) nucleare che sia accettabile da tutti.
Intanto
si potrebbe cercare di diminuire la quantità di energia usata per ottenere
ciascuna merce o servizio ma per fare questo bisognerebbe sapere quanta è tale
energia. Già Marx aveva scritto che il ”valore” di una merce dipende dalla
quantità di lavoro (che è una forma di energia) necessario per fabbricarla e
che resta “incorporato” nella merce. Il tema fu ripreso da Sergei Podolinsky
alla fine dell’Ottocento ed ebbe una vivace rivisitazione nei primi decenni del
Novecento. Il libro “Economia ecologica” (1987) di Martinez-Alier contiene una
bella storia del pensiero del “valore” energetico delle merci e dei servizi.
A
questo punto non resterebbe altro che vedere come si possono cambiare le
attuali tecnologie e gli attuali prodotti per diminuire il consumo di energia.
Alcuni paesi, e anche il nostro, stanno timidamente facendo qualche passo per
incoraggiare l’uso di macchinari che possono essere prodotti o usati con un po’
meno energia. Prendiamo l’automobile, la “supermerce” per eccellenza perché
assicura il servizio mobilità, in Italia oltre 40 milioni di autoveicoli; se
state attenti, nella pubblicità delle automobili è indicato, peraltro in caratteri
microscopici, il consumo di carburante, espresso in litri per 100 chilometri,
un numero variabile fra 5 e 20 a cui corrisponde un “costo energetico” della
mobilità fra 1 e 3 megajoule per chilometro, misurato con una certa procedura
standard, “simulando” il moto in città e su strada (e si è visto quanto poco ci
si possa fidare di queste “simulazioni”). Non ci salveranno neanche le
automobili elettriche che inquinano di meno in viaggio ma devono essere
ricaricate con elettricità prodotta da qualche parte, consumando fonti
energetiche fossili o anche nucleari (ancora loro) che hanno un loro costo
energetico e ambientale e climatico.
Per
renderli più appetibili i frigoriferi da qualche tempo vengono commerciati con
diverse classificazioni che dovrebbero informare gli acquirenti di quanta
energia consumano: dai modelli A+ a quelli A+++ a cui corrispondono consumi,
rispettivamente, fra 1100 e 600 megajoule all’anno. Ma agli acquirenti il
modello più ecologico appare attraente non perché gli importi qualcosa del
futuro del pianeta, ma perché credono di spendere meno soldi. Altra iniziativa
in cui una merce, la casa, viene venduta sulla base del consumo energetico;
l’”attestato di prestazione energetica” (gioia dei geometri e dei notai)
classifica gli edifici in 8 classi, da A+ a G a cui corrisponderebbero consumi
di energia, rispettivamente, fra 70 e 450 megajoule all’anno per metro
quadrato.
Per
legge anche in molte apparecchiature deve essere indicata la potenza elettrica,
ma occorrerebbe una pedagogia diffusa, a cominciare dalla scuola, che aiutasse
a capire il rapporto fra la potenza, le ore di funzionamento e le frane e
alluvioni che colpiscono il nostro paese e tutto il mondo. Una pedagogia della
raccolta differenziata dei rifiuti aiuterebbe a comprendere che soltanto una
separazione intelligente di alcune frazioni dei rifiuti (carta e cartoni tutti
insieme, vetro tutto insieme, metalli tutti insieme) consentirebbe alle
industrie del riciclo di ottenere nuova carta o vetro o metalli con un consumo
di energia minore rispetto alla produzione dalle materie prime tradizionali.
L’auspicabile
diminuzione del costo energetico delle merci è però neutralizzata dall’aumento
della loro quantità, imposto dalle regole della società dei consumi e del
profitto. Le crisi climatiche potrebbero essere un poco attenuate soltanto se i
governanti dei paesi più inquinanti accettassero una diminuzione dei consumi di
energia e di merci, anche a costo di disturbare gli interessi della maggior
parte degli elettori, venditori di combustibili, fabbricanti di merci, padroni
e lavoratori e commercianti e gli stessi “consumatori” intossicati dalla
pubblicità, complici e vittime. I governanti del mondo, che non avevano nessuna
voglia di mettere in discussione il mondo dei soldi e degli affari, continuino
a tenersi le valli che franano, le città allagate e i campi inariditi;
avrebbero fatto meglio a risparmiare le spese del viaggio e degli alberghi a
Parigi.
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