05/11/2015
SM 3812 -- L'insostenibilità della sostenibilità
gli asini, 29, 39-44 (settembre-ottobre
2015)
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
Gli anni sessanta del Novecento sono stati
anni di grandi rivoluzioni: i paesi liberatisi dal colonialismo si sono messi
in testa di rivendicare prezzi più equi per le loro risorse naturali --- rame,
gomma, cobalto, fibre tessili, uranio, petrolio --- che fino allora erano stati
sfruttati dai loro colonizzatori; in tanti nel mondo avevano imparato a
osservare la Terra, fotografata dai satelliti artificiali, e quella sfera nello
spazio era apparsa come l’unica casa per gli esseri umani, grande ma limitata
nei suoi continenti e nelle sue ricchezze; alcuni economisti avevano ironizzato
sul significato del PIL mostrando che questo indicatore ufficiale della
ricchezza e del benessere non è capace di tenere conto dei costi e dei dolori
provocati da sempre più frequenti inquinamenti o alluvioni; alcuni sociologi
avevano mostrato tutti i limiti della società dei consumi; alcuni biologi aveva
denunciato che la popolazione terrestre stava crescendo troppo rapidamente
rispetto alla disponibilità di cibo, di spazio, di acqua. La terribile parola,
“limite”, aveva fatto la sua comparsa nel vocabolario, con grande spavento per
gli economisti ufficiali, per capitalisti, imprenditori e uomini politici.
Si poteva capire che gli esponenti di una
gioventù ribelle nei campus universitari cavalcassero questa insoddisfazione,
che gli operai nelle fabbriche fossero insoddisfatti delle condizioni e dei
pericoli del lavoro. Ma che un club proprio di intellettuali borghesi e di
imprenditori e governanti si fosse messo in testa di ordinare un libro che, nel
1972, spiegava che sarebbe stato necessario porre dei “Limiti alla crescita”
della popolazione, delle merci e della produzione --- questo passava tutti i
segni.
Tanto più che la velenosa idea fece una
qualche presa nel mondo; anche nei paesi industriali, nel mondo politico, non
solo nei giovani ribelli. Qualche governante considerò con attenzione la
analisi dei “Limiti alla crescita”, circolò il termine austerità, in Italia
rapidamente soffocato; perfino i dirigenti sovietici parlarono di “uso
parsimonioso delle risorse”, per non parlare del mondo cattolico in cui
circolavano inviti a minori sprechi.
Bisognava
provvedere, e i rappresentanti del potere economico crearono una Commissione
che elaborò un rapporto, tradotto in italiano col titolo: “Il futuro di noi
tutti”, che ha lanciato su larga scala la moda della sostenibilità, definendo
"ufficialmente" sostenibile lo sviluppo che consente alla
nostra generazione di usare le risorse del pianeta lasciando, alle
generazioni future, un patrimonio di risorse che assicuri anche a loro un
uguale sviluppo. Per vostra tranquillità ve lo trascrivo nell’originale inglese: "Development that meets the needs of the present
without compromising the ability of future generations to meet their own
needs".
Ci sono senza dubbio problemi ambientali,
di inquinamento, di impoverimento delle riserve naturali, ma la società
capitalistica --- questa la tesi sottintesa --- è capace di assicurare lo
stesso lo sviluppo economico, pur con alcune correzioni, uno sviluppo duraturo,
sostenibile, appunto.
Purtroppo c'è una insanabile
contraddizione in termini in tale definizione: se usiamo oggi una
parte delle risorse terrestri non rinnovabili, questa parte non sarà più
disponibile per le generazioni future, per coloro che nasceranno fra venti
o quarant'anni. Una espressione popolare americana spiega che non si può
mangiare la torta e averla ancora. “Can’t eat a pie and have it”.
Inoltre c’è confusione fra sviluppo e
crescita dei beni materiali, quelli appunto che si possono ottenere soltanto
usando e modificando le risorse fisiche della natura. Lo “sviluppo” consiste
nel diritto di avere una vita dignitosa, per le donne e per gli uomini, di
disporre di abitazioni, di cibo e di acqua decenti, di avere accesso
all’informazione, alla conoscenza, al lavoro e di godere il diritto della
libertà.
Ancora peggio: per il principio di
conservazione della massa tutte le materie estratte dalla natura, dalla
biosfera, durante e dopo la trasformazione in beni materiali, in merci, alla
fine “finiscono” sotto forma di scorie e rifiuti gassosi, liquidi e solidi nei
corpi naturali: aria, acque, suolo. In questa circolazione quegli stessi corpi
naturali da cui trarre le risorse necessarie per la vita risultano peggiorati:
l’aria meno respirabile, l’acqua meno bevibile, il suolo meno fertile. Se anche una parte dei rifiuti solidi può
essere trattata per trarne qualche materia ancora utilizzabile per produrre
altre merci, tali merci “riciclate” sono inevitabilmente in quantità inferiore a
quella dei rifiuti riciclati (altri rifiuti si formano nel riciclo) e sono di
qualità peggiore delle merci originali.
Nella definizione “ufficiale” di sviluppo
sostenibile si fa riferimento alla crescita dell’uso delle risorse naturali che
sono, lo spiega bene l'ecologia, limitate fisicamente. Se si traggono
petrolio o gas naturale dai pozzi, carbone dalle miniere, inevitabilmente se ne
lascia di meno alle generazioni future; se si aumenta la produzione di cereali
o di soia si lascia, inevitabilmente, un terreno impoverito di sostanze
nutritive e esposto all'erosione; se si usano i fiumi come ricettacolo dei
rifiuti e delle scorie delle attività umane non si può sperare e pretendere di
avere acqua potabile a valle.
La nostra società di mercato stabilisce
che è bene, anzi obbligatorio, fare aumentare il prodotto interno lordo, cioè
la quantità di denaro che ogni anno circola attraverso una economia. Ma
tale indicatore aumenta soltanto se aumenta la produzione e l'uso
e il consumo di automobili, di cereali,
di benzina, di cemento, di scarpe, di telefoni e computer, di elettricità,
carta, eccetera, tutte cose che possono essere ottenute soltanto
estraendo dalle miniere o dai campi o dalle foreste risorse naturali che
non saranno più disponibili alle generazioni future; tutte cose che
inevitabilmente generano, come si è detto, scorie che peggiorano la qualità
delle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare) che lasciamo alle generazioni
future.
Per farla breve, le attuali regole
economiche fanno sì che l'attuale società --- italiana, europea, mondiale ---
sia intrinsecamente insostenibile. Ci stiamo prendendo in giro,
con le grandi attestazioni di amore per lo sviluppo sostenibile, per la
sostenibilità, in un mondo in cui le regole di base dei rapporti umani e
economici sono insostenibili. E la situazione è tanto più grave in
quanto le stesse regole economiche sono state assimilate dai paesi
ex-socialisti e vengono puntigliosamente esportate nei paesi emergenti come
Cina, India, Brasile e anche in quelli poveri del mondo.
Eppure la speranza di poster continuare
sulla gloriosa strada della crescita merceologica, si è diffusa non solo nella
borghesia imprenditoriale, ma anche nel mondo ambientalista, quello da cui era
nata la grande contestazione degli anni sessanta. E così ci sono stati
volonterosi sforzi per attuare un ambientalismo scientifico, per proporre
soluzioni tecnico-scientifiche “verdi”, “compatibili”, coerenti con il disegno
di ipotetico sviluppo sostenibile, nella doverosa possibilità di produrre e
consumare e disporre di più beni materiali.
Se le abitazioni sono strutture che
divorano energia e cemento e acqua è possibile immaginare nuovi materiali da
costruzione, tecniche di isolamento termico, l’inserimento di pannelli solari
sui tetti, pensare e proporre città e case “sostenibili”.
E’ vero che i consumi di energia sotto
forma di prodotti petroliferi, di carbone e gas naturale immettono
nell’atmosfera crescenti quantità di gas, come l’anidride carbonica, che
modificano la composizione chimica dell’atmosfera e provocano mutamenti
climatici disastrosi; è vero che sarebbe ragionevole diminuire le emissioni dei
gas serra, consumando di meno energia, ma di energia c’è bisogno ed ecco le
proposte sostenibili di filtrare i gas dai camini delle fabbriche e delle
centrali, di immettere tali gas nel sottosuolo, di sostituire le fonti fossili
con quelle rinnovabili, ed ecco un proliferare di pale eoliche, di pannelli
fotovoltaici, di centrali alimentate con la biomassa, magari con oli importati
dai paesi tropicali, tutto grazie a provvidenziali finanziamenti pubblici, ed
ecco nuove proficue fonti di affari e di crescita finanziaria, pur di far
correre automobili sostenibili in congestionate città sostenibili, con grattacieli
sostenibili sempre più svettanti nel cielo.
E’ vero che molte merci inquinano durante
la produzione e durante il “consumo”, è vero che, a conti fatti, non si consuma
niente, che le attività umane non fanno altro che trasformare le merci in rifiuti
gassosi, liquidi e solidi --- quattro chili di rifiuti per ogni chilo di merce
prodotta e usata --- ma anche qui --- dicono --- le soluzioni sostenibili non
mancano. E’ possibile trarre elettricità e affari dal trattamento e dal riciclo
dei rifiuti, è possibile utilizzare materie alternative biodegradabili e
“verdi” tratte dalla biomassa vegetale in alternativa a quelle derivate dal
petrolio.
Anche se, col procedere verso improbabili
soluzioni sostenibili si è poi visto che si usciva da una trappola per cascare
in un’altra; la produzione su larga scala di carburanti sostenibili,
alternativi alla benzina, dal mais o dallo zucchero sconvolgeva l’agricoltura
dei paesi poveri; l’uso di grassi vegetali per la produzione di carburanti
diesel provocava la distruzione delle foreste tropicali per fare spazio a
piantagioni di palma. Al punto da riconoscere che si toglieva il cibo di bocca
ai paesi poveri per far correre i SUV dei paesi industriali.
Pochi numeri aiutano a mostrare la
insostenibilità della sostenibilità. La produzione primaria netta --- cioè
il peso di materiali vegetali formati attraverso la fotosintesi
(detratte le perdite per la respirazione vegetale) --- è, sulle terre
emerse, di circa 100 miliardi di tonnellate all'anno.
Di questa ricchezza in gran parte
rinnovabile, rigenerata ogni anno dai cicli della natura, per l'alimentazione
umana e degli animali da allevamento e come legno e altre materie vengono
prelevati circa 30 miliardi di tonnellate all’anno. Il peso
del carbone, del petrolio e del gas naturale portati via ogni anno dalle
viscere della Terra ammonta a oltrecirca 12 miliardi di tonnellate, a cui vanno
aggiunti circa 60 miliardi di tonnellate all’anno di minerali, materiali da
costruzione, tutti non rinnovabili. La trasformazione di tutti i materiali,
tratti dalla natura, da parte degli oltre sette miliardi di esseri umani
esistenti nel 2015, e che aumentano in ragione di circa 60 milioni di persone
all’anno, genera ogni anno circa 35 miliardi di tonnellate di gas anidride
carbonica, oltre a miliardi di tonnellate di altri gas che finiscono
nell’atmosfera alterandone la composizione chimica e accelerando i mutamenti
climatici; e genera miliardi di tonnellate di sostanze organiche e inorganiche
che finiscono nelle acque prelevate dai corpi naturali e restituite inquinate
alla natura in ragione, nel mondo, di circa 4000 miliardi di tonnellate
all’anno; e genera scorie e residui solidi che finiscono sul suolo. Una parte
infine, soprattutto di minerali e metalli e rocce, resta immobilizzata nella
tecnosfera --- nell’universo delle cose fabbricate, edifici, macchinari,
oggetti a vita media e lunga --- che si dilata continuamente e
irreversibilmente.
In un piccolo paese come l’Italia la sola
massa dei rifiuti solidi ammonta a circa 0,2 miliardi di tonnellate all’anno,
quella dei gas di rifiuto ammonta a oltre mezzo miliardo di tonnellate
all’anno, la massa di acqua che entra nelle fabbriche, nelle case e nei campi e
ne esce contaminata da rifiuti e agenti vari ammonta a circa 60 miliardi di tonnellate
all’anno.
Volenti o nolenti, comunque di cose
materiali gli esseri umani hanno bisogno, in quantità crescente anche per
l’inarrestabile aumento della popolazione mondiale. Tutto quello che si può
fare per attenuare la insostenibilità dovuta all’impoverimento e al
peggioramento della qualità ecologica delle risorse naturali, è cominciare a
chiedersi: chi ha bisogno di che cosa ?
Davanti a circa 2000 milioni di abitanti
della Terra che sono sazi di beni e di merci, talvolta obesi di sprechi, ci
sono sulla Terra circa 3000 milioni di persone che, nei paesi di nuova
industrializzazione, stanno correndo a tutta velocità nell’aumento
insostenibile della produzione e del consumo di energia, di metalli, di
cemento, di automobili, di apparecchiature elettroniche, e poi ci sono altri
2000 milioni di persone povere e metà di queste non dispongono di una quantità
sufficiente di cibo, di acqua di buona qualità, sono povere di libertà e
dignità, beni che richiedono anch’essi beni materiali, perché non si può essere
liberi e non si può vivere una vita dignitosa se mancano abitazioni decenti,
letti di ospedale, banchi di scuola. Una mancanza che è giusta fonte di
rivendicazioni, di violenza, di pressioni migratorie verso paesi opulenti che
non vogliono spartire la loro opulenza. Una mancanza che può essere sanata
soltanto con la terribile e improponibile proposta di imporre ai ricchi di
consumare di meno per lasciare ai poveri una maggiore frazione di beni
materiali che gli consenta di avere una vita minimamente decente.
Resta la domanda: quanto a lungo può
durare una società insostenibile ? Da quando gli esseri umani hanno abbandonato
la loro condizione di animali cacciatori e raccoglitori, in relativo equilibrio
con i cicli rinnovabili e sostenibili delle risorse naturali, è cominciato un
inarrestabile cammino verso l’aumento della popolazione, l’aumento dei desideri
di questi nuovi animali speciali, gli umani, e, di conseguenza, il crescente
impoverimento delle riserve di “beni” naturali e il peggioramento delle condizioni,
della qualità, dei corpi naturali. L’insostenibilità è la punizione di cui
parla la Bibbia per coloro che hanno osato mangiare il frutto della conoscenza.
E’ del tutto vano chiacchierare su quanto
a lungo potrà durare la storia dell’uomo sulla Terra, su quanto potranno durare
le riserve di petrolio o di minerali, su quanti gradi aumenterà la temperatura
del pianeta o su quanti metri si solleveranno gli oceani, sul massimo numero di
esseri umani che la Terra può sopportare. Nove miliardi di persone a metà del
XXI secolo ? dieci o undici alla fine del XXI secolo ? Come vivranno e dove
saranno questi in futuro ? Finirà un giorno l’avventura degli esseri umani su
questo pianeta ? Domande futili perché anche dopo la scomparsa degli esseri
umani, dei nostri arroganti grattacieli e delle nostre fabbriche e centrali, e
anche quando le scorie radioattive che lasciamo alle generazioni future si
saranno stancate di liberare radioattività, continuerà la vita,
quella si, sostenibile, a differenza delle cose umane, fino a quando il Sole
anche lui, non si sarà stancato di gettare calore nello spazio. Per ora, nel
brevissimo (rispetto ai tempi della natura) spazio di una o dieci o cento
generazione, accontentiamoci di ammirare il mondo che ci circonda e, se possibile
di rispettarne le meraviglie.
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