04/08/2015
SM 3788 -- A settant'anni da Hiroshima
La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 4 agosto
2015
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
“Più
abbagliante di mille soli” è stata la luce che ha squarciato, il 6 agosto di
settanta anni fa, il cielo della città giapponese di Hiroshima quando esplose
la bomba atomica americana: una nube scura e mortale avvolse poi la città e uccise,
con la radioattività delle sue polveri e con l’onda di pressione e di calore,
più di centomila persone. Tre giorni dopo un’altra bomba esplodeva nel cielo
dell’altra città giapponese di Nagasaki; pochi giorni dopo, con la resa del
Giappone finiva la seconda guerra mondiale combattuta da francesi, inglesi,
sovietici e americani contro Germania, Italia e Giappone.
Che
si potesse costruire una bomba di eccezionale potenza distruttiva, equivalente
da sola a quella di diecine di migliaia delle bombe al tritolo allora usate da
tutti i paesi in guerra, era apparso chiaro con i progressi delle ricerche
fisiche sulla struttura del nucleo atomico; nel 1932 l’inglese James Chadwick (1891-1974)
aveva scoperto che “dentro” il nucleo atomico oltre ai protoni dotati di carica
positiva c’erano delle particelle prive di carica elettrica, i neutroni, e già
nel 1934 l’italiano Enrico Fermi (1901-1954)
e i suoi collaboratori a Roma si erano dedicati allo studio dei mutamenti dei
nuclei atomici degli elementi in seguito al “bombardamento” con questi neutroni.
Nel caso dell’uranio sembrava che si formassero degli elementi transuranici,
più pesanti dell’uranio, fino allora sconosciut; gli stessi esperimenti stavano
conducendo Otto Hahn (1879-1968) e Lise Meitner (1878-1968) in Germania e Fréderic
Joliot-Curie (1900-1958) in Francia.
Lise
Meitner, che era ebrea, aveva dovuto abbandonare la Germania nazista e si era
rifugiata in Svezia; alla fine del 1938 Hahn dalla Germania le scrisse di avere
osservato, con sorpresa, fra i prodotti del “bombardamento” dell’uranio con
neutroni, degli atomi di bario, un elemento molto più piccolo dell’uranio; nel
suo esilio svedese la Meitner intuì che lo strano bario si era formato per “fissione”,
così la chiamò, del nucleo di uranio in nuclei più piccoli, come appunto il
bario, e che da tale reazione si liberava una grandissima quantità di energia,
milioni di volte superiore rispetto ad un uguale peso di carbone; la notizia
della scoperta arrivò negli Stati Uniti nel gennaio 1939 e subito furono
avviati febbrilmente esperimenti che mostrarono che nella fissione dell’uranio
si liberano anche altri neutroni i quali possono provocare la fissione di altri
nuclei di uranio, in una “reazione a catena” capace, in teoria, di generare una
quantità quasi infinita di energia.
Per
vedere se era vero, bisognava provare con maggiori quantità di uranio; nel dicembre
1942 Enrico Fermi a Chicago dimostrò sperimentalmente che la fissione dei
nuclei di uranio era possibile e anzi che poteva essere regolata per poter
avere calore con cui azionare navi, macchine e centrali; se lasciata proseguire
avrebbe rappresentato una terribile arma distruttiva.
Nel
timore che la Germania potesse costruire una simile super-arma, gli Stati Uniti
avviarono un impegnativo programma tecnico-scientifico-militare e riuscirono a
costruire, in pochissimi mesi negli anni 1943-45, tre potenti bombe atomiche.
Il 16 luglio 1945 ad Alamagordo, nel deserto del New Mexico negli Stati Uniti,
fu fatta esplodere, per prova, “con successo”, la prima bomba atomica; dal
maggio 1945 ormai la Germania era stata sconfitta, ma la guerra contro il
Giappone continuava a provocare innumerevoli morti: il presidente americano
Harry Truman decise così che il lancio delle altre due bombe atomiche sul
Giappone ne avrebbe accelerato la resa, ciò che avvenne, ma a prezzo di incredibili
dolori.
Ormai
la tecnologia nucleare era nota e cominciò una corsa fra Stati Uniti e Unione Sovietica,
ben presto impegnate in una “guerra fredda”, per la costruzione di bombe sempre
più potenti; nei settanta anni passati da quell’estate di fuoco cono state
costruire diecine di migliaia di bombe atomiche a uranio e a idrogeno; negli
anni ottanta del Novecento, quelli della maggiore tensione fra le due
superpotenze, negli arsenali e sulle rampe di lancio c’erano 60.000 bombe
nucleari con una potenza distruttiva equivalente a quella di 15.000 milioni di
tonnellate di tritolo. Dal 1945 al 1990 duemila bombe sono state esplodere, nell’atmosfera
e nel sottosuolo, negli oceani e nei deserti; tali “tests” hanno contaminato il
pianeta con mortali polveri radioattive. E’ scomparsa l’Unione Sovietica ma oggi
sono dotati di bombe nucleari, la Russia e gli Stati Uniti, il Regno Unito e la
Francia, la Cina, l’India, il, Pakistan, Israele. Sono diminuite ad “appena” 15
mila le bombe nucleari nel mondo, ma se ne esplodesse anche sono una parte ce
ne sarebbe a sufficienza per far sparire la vita sul pianeta.
La
frase iniziale di questo articolo è un verso di un inno sacro indiano
pronunciata dal fisico americano Robert Oppenheimer davanti agli effetti dell’esplosione
della prima bomba atomica, ed è anche il titolo originale del libro di Robert
Jungk (tradotto in Italia come ”Gli apprendisti stregoni”, ormai introvabile)
in cui sono raccontati gli eventi che hanno portato alla “bomba”, le
contraddizioni degli scienziati, gli intrighi e gli errori della politica. Lo
spettro di quella abbagliante luce mortale è ancora fra di noi se non si arriva
a vietare la stessa esistenza delle bombe nucleari, a distruggere quelle
esistenti. Fino a quel momento la sopravvivenza della stessa specie umana sarà
in pericolo.
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