05/05/2015
SM 3763 -- Il caso aiuta la mente preparata
La Gazzetta del
Mezzogiorno, martedì 5 maggio 2015
Giorgio Nebbia
nebbia@quipo.it
Chi credesse che il riciclo dei rottami, dei rifiuti e delle
scorie, e le tecniche per produrre le stesse merci con minore consumo di
energia, siano invenzioni dal moderno ambientalismo si sbaglierebbe; la storia
della tecnica offre molte occasioni per riconoscere le invenzioni “verdi” e
”sostenibili”, come è di moda dire, del passato. L’industria siderurgica, per
esempio, è progredita proprio diminuendo il suo effetto negativo sull’ambiente.
La fabbricazione dell’acciaio consiste nel trattare i
minerali, che contengono ossidi di ferro, con legna, nel Settecento, poi con
carbone, dall’Ottocento in avanti; ad
alta temperatura il carbonio di questi combustibili “porta via” l’ossigeno dai
minerali, liberando ferro impuro contenente piccole quantità di carbonio, denominato
ghisa o “ferraccio”. Un ferro migliore, l’acciaio, si poteva ottenere portando
via quel residuo di carbonio presente nella ghisa; all’inizio questo si
otteneva mettendo la ghisa fusa in grandi “scodelle” metalliche scaldate con
carbone; per contatto con l’aria il carbonio si ossidava e la ghisa si
trasformava lentamente in acciaio, un’operazione, detta “puddellaggio”, lenta a
costosa.
Il 14 agosto 1856 nel quotidiano inglese The Times fu
pubblicato il testo di una relazione che l’inventore Henry Bessemer (1813-1898)
aveva presentato al congresso della società siderurgica britannica per illustrare
un nuovo processo che permetteva di ossidare il carbonio della ghisa senza
consumo di carbone. La ghisa veniva tenuta fusa col calore liberato dalla
combustione, grazie ad una corrente di aria che attraversava il convertitore, proprio
del carbonio che si voleva eliminare dalla ghisa. Il nuovo processo consentiva
di diminuire il consumo di energia per tonnellata di acciaio e fu adottato in
tutto il mondo con conseguente rapido aumento della produzione di questo
metallo.
Ben presto apparvero però vari inconvenienti: la maggior
parte dei minerali di ferro disponibili nella metà dell’Ottocento conteneva
zolfo e fosforo che restavano nell’acciaio e lo rendevano fragile. Il problema
era così importante che se ne parlava nelle scuole superiori inglesi; ne
parlava nel 1870 il chimico George Chaloner in un college di Londra e fra gli studenti
c’era Sidney Thomas (1850-1885), un giovanotto che frequentava le lezioni nelle
ore libere dal lavoro. Thomas, figlio di un funzionario governativo, all’età di
17 anni, alla morte del padre, per vivere, per un anno insegnò in una scuola
elementare poi fu assunto come impiegato in un ufficio di polizia.
Aveva però una grande passione per la chimica: raccolse così
la sfida del suo insegnante e si mise in testa di risolvere il problema
dell’eliminazione del fosforo dall’acciaio. Suggerì di rivestire il fondo dei convertitori
Bessemer con mattonelle refrattarie fatte di dolomite, un carbonato di calcio e
magnesio di carattere basico; il fosforo presente nella ghisa veniva assorbito
dal rivestimento che, lentamente, si arricchiva di fosfato di calcio.
Dopo alcuni esperimenti in una fabbrica di acciaio, il
sistema si rivelò efficace e Thomas espose questo risultato ad un congresso a
Londra nel 1878; era presente l’industriale americano Andrew Carnegie
(1835-1919) che subito chiese e ottenne la concessione del brevetto per poter applicare
il processo Bessemer “basico” agli stabilimenti siderurgici negli stati
meridionali agricoli degli Stati Uniti i più poveri, il cui benessere aumentò
grazie a questa industrializzazione.
Proprio in quegli stessi anni il chimico tedesco Justus von Liebig
(1803-1873) aveva spiegato che le rese agricole stavano diminuendo perché le
coltivazioni portavano via dal terreno i sali di fosforo, azoto e potassio,
necessari alla vegetazione. In passato questi sali venivano in parte restituiti
attraverso gli escrementi umani e degli animali, ma ai tempi di Liebig la
sottrazione era molto più veloce della restituzione per via biologica. Liebig
aveva suggerito di aggiungere al terreno dei fosfati di calcio ottenuti trattando
con acido solforico dei minerali fosfatici che l’Europa doveva importare
dall’Africa.
Thomas ebbe allora l’idea di riciclare (come diremmo oggi)
le ingombranti scorie del rivestimento “basico” tolto periodicamente dai convertitori
Bessemer, e di venderlo in polvere come concime. Con le “scorie Thomas”, come
il concime fu battezzato, ogni paese industriale poteva avere una fonte di concimi
fosfatici senza dover trattare con processi chimici i minerali di importazione.
Thomas, che nel frattempo era diventato ricco, cominciò a soffrire per le
conseguenze delle polveri respirate nei suoi esperimenti; cercò qualche paese
col clima migliore di quello inglesi e morì a Parigi all’età di appena 35 anni,
lasciando la sua fortuna a iniziative filantropiche.
Il metodo Bessemer per la produzione dell’acciaio venne
sostituito, alla fine dell’Ottocento, dal metodo inventato dal francese Pierre
Martin (1824-1915) e dal tedesco Carl Siemens (1823-1883), con il quale era
possibile produrre acciaio trattando la ghisa, lo stesso minerale di ferro e,
soprattutto, “riciclando” i rottami di ferro che nel frattempo si stavano
accumulando. Anche il processo Martin-Siemens aveva un rivestimento refrattario
“basico” che tratteneva il fosforo e che, dopo l’uso, poteva essere trasformato
nel concime inventato da Thomas. Così la produzione di “scorie Thomas” è continuata;
nei primi decenni del Novecento era arrivata a 5 milioni di tonnellate
all’anno, poi è lentamente declinata. C’è ancora una modesta importazione anche
in Italia di questo concime, il cui uso è ammesso nelle coltivazioni
biologiche. “Il caso aiuta la mente preparata”: questo detto si applica bene
all’avventura umana di Thomson; chi sa che non dia coraggio a qualche giovane
lettore.
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