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01/09/2005

SM 2643 -- L'entropia della materia -- VG 31

Villaggio Globale, 8, (31), 45, 47-48, 50, 52-55 (settembre 2005)

 

 

 

L’entropia della materia

 

 

Giorgio Nebbia <nebbia@quipo.it>

 

 

Già nel fascicolo di “Villaggio Globale” n. 5 del marzo 1999, erano state esposte alcune considerazioni a proposito della fallacia del concetto di sostenibilità. Ogni bene materiale --- e il mondo, le persone, vanno avanti usando e trasformando beni materiali, si tratti di alimenti o di benzina, di metalli o di cemento, di poltrone o di carta --- viene tratto dalla natura e, dopo l’uso, non scompare, ma ritorna nella natura in forma e di qualità modificate e “peggiori” di prima, per cui ciascun ciclo merceologico lascia la natura impoverita e genera scorie solo in parte riutilizzabili. L’impossibilità di lasciare alle generazioni future --- come vorrebbe la definizione di “sostenibilità” --- risorse che gli consentano di avere gli stessi beni che abbiamo avuto noi è la condanna imposta dalla “legge” dell’entropia.

 

Altri collaboratori di questi fascicolo potranno, meglio di me, esporre i principi dell’entropia e le ragioni per cui ogni volta che viene usata la merce-energia ne peggiora la qualità e la utilità economica. A me interessa sottolineare il fatto che le stesse considerazioni valgono ogni volta che qualsiasi bene materiale viene estratto dagli esseri umani dalla natura e viene usato a fini “economici”.

 

L’opera fondamentale a questo proposito è il libro “La legge dell’entropia e il processo economico” di Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) non tradotto in italiano; fortunatamente sono stati tradotti molti suoi saggi; una di queste raccolte è intitolata “Energia e miti economici”, in due diverse versioni pubblicate da Bollati Boringhieri; raccomando quella del 1998 che contiene anche una breve biografia umana e intellettuale dell’autore.

 

Qui mi limiterò all’analisi della tesi che la produzione agricola e industriale, così come è praticata secondo le “leggi” economiche attuali, non può durare a lungo per motivi fisici, anzi proprio “per colpa” dell’entropia. Tale produzione dipende dalla trasformazione della materia e dall’uso dell’energia e l’energia, da qualsiasi parte si prenda, nel corso di ogni trasformazione peggiora sempre di qualità ed è sempre meno disponibile per produrre lavoro utile. Lo afferma il secondo principio della termodinamica: del sistema attraversato dall’energia aumenta sempre l’entropia. Con la legge dell’entropia deve quindi fare i conti qualsiasi teoria della produzione, dello sviluppo e della crescita economici: la legge dell’entropia rappresenta il freno, invisibile nel calcolo monetario, ma sempre in agguato, alla crescita economica.

 

E il freno dell’entropia energetica è affiancato da un altro freno, rappresentato dal fatto che anche con la qualità della materia dobbiamo fare i conti: nel suo passaggio dalla natura, ai processi di produzione, a quelli di “consumo”, fino a quando viene rigettata nell’ambiente naturale sotto forma di scorie e di rifiuti, anche la materia subisce una degradazione, in un certo senso “entropica” anche lei, per la quale Georgescu-Roegen ipotizzò, scherzosamente, l’esistenza di un “quarto principio” della termodinamica --- che del resto è già implicito nel principio di conservazione della massa: se si brucia un chilo di legna, si ottiene alla fine esattamente un chilo degli stessi atomi della legna ma in forma di gas e ceneri da cui non è possibile avere di nuovo un chilo di legna da bruciare.

 

Altro che crescita esponenziale, altro che limiti alla crescita, altro che società stazionaria: in ogni caso la crescita economica e materiale è destinata a diminuire perché diminuisce, prima o poi, la quantità dell’energia e della materia disponibili per gli oggetti necessari ai bisogni, continuamente crescenti, degli esseri umani.

 

Alla fine degli anni sessanta del Novecento il problema della insostenibilità della crescita economica era nell’aria: vari autori avevano denunciato che l’impoverimento delle riserve di molte risorse naturali --- delle foreste, dei minerali, dell’acqua, dei combustibili, della fertilità del suolo --- la congestione urbana, l’inquinamento dell’aria e delle acque, l’avvelenamento degli esseri umani e degli animali, avevano tutti la loro origine nelle “regole” dell’economia, nella idolatria della crescita del prodotto interno lordo, nella divinizzazione del possesso di merci e beni materiali.

 

L’ecologia spiega bene che la vita “funziona” con cicli chiusi, nei quali la materia e l’energia circolano fra organismi produttori (vegetali), consumatori (animali) e decompositori che ”riciclano” le scorie e ne rendono disponibili gli elementi per la prosecuzione della vita. In stridente contrasto, l’economia è capace di soddisfare i bisogni umani, di far  crescere la ricchezza monetaria, soltanto producendo merci e oggetti mediante cicli aperti nel corso dei quali le risorse naturali vengono e restano impoverite e le scorie tornano nella biosfera contaminando e inquinando i corpi riceventi naturali: acqua, aria, mare, suolo, e peggiorandone irreversibilmente la qualità, cioè la successiva utilizzabilità.

 

Più merci, meno risorse naturali restanti, più scorie che un giorno nessuno saprà dove e come smaltire. Il comportamento economico, l’aumento della ricchezza monetaria, devono fare i conti con i limiti della capacità ricettiva (della carrying capacity)  della natura: lo sfruttamento eccessivo, da parte di una popolazione in aumento con consumi materiali in aumento, delle risorse naturali distrugge la disponibilità futura di tali risorse e ne peggiora, con l’inquinamento, la utilizzabilità da parte di coloro che verranno dopo di noi.

 

Insomma bisogna piegare le leggi dell’economia adattandole alle leggi e ai limiti dei processi fisici e biologici: del resto il grande economista Alfred Marshall (1842-1924) aveva scritto, già nel 1898, nei suoi celebri “Princìpi”, che “la Mecca dell’economista” è rappresentata dall’economia biologica.

 

La produzione industriale e l’aumento della ricchezza monetaria sono accompagnati da un impoverimento “entropico” delle risorse naturali perché dipendono da un continuo flusso di energia: ogni volta che l’energia passa attraverso un processo “economico” di produzione o di consumo, e ci passa sempre, la sua quantità non cambia (per il primo principio della termodinamica), ma inevitabilmente e irreversibilmente peggiora la sua “qualità”.

 

Per il secondo principio della termodinamica, per la legge dell’entropia, appunto, l’energia che attraversa i processi economici, a differenza di quella che attraversa i processi biologici, diventa sempre meno disponibile in futuro, non è più in grado di fornire un servizio uguale a quello che avrebbe potuto fornire all’inizio del processo. Insomma, ogni volta che produciamo una Fiat o una Volkswagen, o qualsiasi altro strumento “esosomatico” con cui aumentare il nostro potere sul mondo circostante, noi distruggiamo irrevocabilmente una quota di materia e contribuiamo a peggiorare le condizioni di vita attuali e future.

 

La crescita economica --- l’aumento della produzione di automobili, di conserva di pomodoro, di cemento o di qualsiasi altra “merce” che tale crescita economica accompagna --- comporta un impoverimento complessivo del pianeta, una diminuzione della quantità di beni materiali che il pianeta Terra potrà fornire in futuro e una diminuzione della capacità della Terra di assorbire, assimilare e disintossicare le scorie del metabolismo industriale e merceologico; le scorie stesse intossicano l’ambiente “vivente” biologico ed economico, al punto da determinare una condizione in cui produzione e consumi, a livello planetaria, decrescono. Alcune considerazioni su questo tema sono state pubblicate nel fascicolo n. 30 del giugno 2005 di “Villaggio Globale”.

 

Nei ruggenti anni settanta del Novecento molti si interrogarono sul futuro energetico, della produzione, del consumo, sulla necessità di fare un uso parsimonioso delle risorse naturali scarse, di ricorrere a fonti energetiche e materie rinnovabili come l’energia solare e i prodotti forestali, di riutilizzare gli scarti e di riciclare i rifiuti per ricuperare le materie e l’energia che essi “contengono”.

 

Con cautela, peraltro. Il Sole è la vera fonte di energia per il futuro, ma non per le forme di utilizzazione a cui sono abituate le società industriali, non per le quantità di energia che le società industriali chiedono per far correre le loro automobili, per i loro frigoriferi  e lavatrici, i loro aerei supersonici e grattacieli.

 

Ciò dipende essenzialmente dalla diversa “densità”, come disponibilità per unità di superficie e per unità di tempo, delle energie ricavate da fonti fossili o nucleari, rispetto alla molto minore “densità” dell’energia fornita dal Sole. Un bosco fissa, utilizzando l’energia solare, su una superficie di un ettaro e nel corso di un anno, una biomassa con un “contenuto energetico” equivalente a quello di 10 tonnellate di petrolio, la stessa energia che in un anno è richiesta da una casa con una superficie di un centesimo di ettaro.

 

Ai tassi attuali di prelevamento dell’energia occorrerebbe che ogni casa fosse circondata da un ettaro di bosco: oggi una servitù grandissima ma, quando saremo a corto di petrolio e di gas naturale, ciò che può avvenire nel corso di alcuni decenni, dovremo usare l’energia ottenuta dal Sole sotto forma di biomassa o con nuovi dispositivi tecnici, ridisegnando le nostre città, i nostri modi di trasporto, di abitazione, di lavoro, le nostre merci secondo canoni bioeconomici, secondo una economia basata sui cicli dell’agricoltura e delle foreste, decentrata e diffusa nel territorio, in cui i flussi dei beni materiali umani --- in entrata, e in uscita come scorie --- cercano di accordarsi con i grandi cicli biologici.

 

Ma anche qui bisogna stare attenti: non è possibile far nascere, nello stesso campo, un quintale di grano un anno dopo l’altro, senza fine, perché anche il suolo si impoverisce, in ogni passaggio, dei minerali e delle sostanze nutritive necessarie per le piante e le sostanze sottratte solo in parte sono restituite dai cicli produttivi agricoli, così come li conducono gli umani. Per cui, alla fine si può assicurare la continuità dei cicli naturali soltanto aggiungendo concimi, ottenuti da minerali tratti dalla natura e da energia, sempre quella.

 

E non ci si illuda neanche delle prospettive di riciclo delle scorie e dei rifiuti della produzione e dei consumi. Conta non solo l’energia ma anche la materia anche lei, per quel “quarto principio” prima ricordato, diventa sempre meno disponibile, a mano a mano che la si usa. E ciò soprattutto per il fatto che le merci che entrano nel “processo” di “consumo” sono costituite da materia modificata, contaminata, addizionata con altre sostanze.

 

Il giornale non è costituito da carta, ma da carta addizionata con inchiostro, ed è del resto l’inchiostro che porta “con se” le informazioni, le notizie, il servizio reso dal giornale al lettore che lo acquista. Se esistesse un diavoletto di Maxwell capace di separare ogni particella di inchiostro da ogni fibra di carta, alla fine si potrebbe recuperare il 100 % dell’inchiostro e della carta per fare un altro giornale. Ma tale diavoletto, che non esiste per l’energia, non esiste neanche per la materia, per cui, alla fine, ogni processo di riciclo fornisce meno materia di quella presente nei rifiuti trattati e lascia delle scorie inquinanti anche loro.

 

Ma le leggi della fisica impediscono anche la possibilità di un riciclo completo delle merci usate e di uno sfruttamento minerario integrale di qualsiasi roccia. Al massimo resta da elaborare delle nuove scale di valori per le quali “varrà di più” una merce o un servizio che, a parità di utilità e di servizio umano reso, richiedono meno acqua, meno energia, meno materie, generano meno scorie

 

Questa maniera, sovversiva, di ragionare ha naturalmente i suoi critici che mettono in evidenza che può esistere una crescita economica, e anche uno sviluppo umano, con meno, con sempre meno, materiali ed energia, che addirittura  si vedono già i segni di una società dematerializzata. E che comunque è possibile immaginare una società mondiale sviluppata, i cui consumi di materia e di energia possono essere ridotto di quattro volte, di dieci volte.

 

Ma anche questa è, alla lunga, una illusione: è certamente possibile sostituire il rame dei fili telefonici con le fibre ottiche, riciclare una parte, anche una grande parte, della carta o del vetro o della plastica, ma una delle fonti della irreversibilità dell’impoverimento delle risorse naturali sta, come si è già accennato, proprio nella qualità merceologica dei consumi umani, nella maniera in cui la materia viene trasformata per diventare oggetto, merce, macchinari --- strumenti esosomatici --- in grado di fornire servizi.

 

Certo: è possibile introdurre innovazioni tecniche che consentano di sostituire una materia con un’altra, una fonte di energia con un’altra, un campo o un pascolo o una foresta con un altro, da qualche altra parte, ma fino a quando ?

 

Bisognerà dapprima abituarsi ad avere delle automobili più piccole, dei macchinari più razionali, a ricorrere di più e meglio alle risorse rinnovabili dipendenti dal Sole, soprattutto dalla fotosintesi: foreste e agricoltura razionale potranno soddisfare molti bisogni umani della popolazione mondiale  esistente. Del resto dell’avvento di una “società biotecnica” aveva parlato, come stadio supremo della comunità umana, già negli anni trenta del secolo scorso dall’americano Lewis Mumford (1895-1990) nel celebre e dimenticato libro “Tecnica e cultura”.

 

Ma a lungo andare la fabbricazione e l’uso dei giganteschi organi esosomatici rappresentati dalle macchine e da tanti strumenti dovrà essere rallentato e fermato. L’orizzonte di sopravvivenza può estendersi per decenni o secoli, ma sarà tanto più vicino quanto meno faremo attenzione alle trappole tecnico-economiche che ci aspettano.

 

Non si tratta di un messaggio disperato, ma anzi di un invito alla speranza e al cambiamento: un invito alla ricerca di nuove vie e ad una riformulazione dell’economia. Il lavoro per gli studiosi è vasto e grande: non si tratta soltanto di inventare nuovi processi per utilizzare al meglio le risorse bioeconomiche del pianeta – e ce n’è per intere generazioni di biologi, chimici, ingegneri e economisti che siano disposti a lavorare insieme – ma di affrontare anche nuove indagini nel campo misterioso del valore delle merci.





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